Zhang
Hongtu 张宏图nasce nel 1943 a Pingliang nella
provincia del Gansu da una famiglia musulmana. Negli anni Sessanta si iscrive
alla Central Academy of Arts and Crafts a Pechino. Il padre, membro della
Chinese Islamic Association, viene etichettato come “elemento di destra”,
accusa che precluderà l’arruolamento dell’artista alle Guardie Rosse, e gli
vieterà di dipingere Mao. Nel 1980 il gruppo di pittori contemporanei
dell’accademia organizza un’esposizione alla National Gallery of Art, alla
quale partecipa. Nel 1982, sentendosi costretto ad una vita piena di
limitazioni, vola a New York, e inizia a studiare arte presso la Art Student
League. Visita musei, conosce artisti, inizia a dipingere su carta di riso o di
giornale. Al Metropolitan Museum osserva il Mao di Andy Warhol e rimane colpito
dalla leggerezza della sua espressione. Per lui, cresciuto con la concezione
che l’immagine del leader fosse una reliquia sacra, il solo cambio di colore
sullo sfondo è profanatorio. Soltanto nel 1987 avrà il
suo primo approccio con l’icona di Mao. Ispirandosi ai lavori di Aleksandr
Kosolapov che abbinava la figura di Lenin a quella della Coca-Cola, produce il
primo lavoro della serie Lunga vita al Presidente Mao, in pieno stile Pop Art.
Zhang Hongtu, Lunga vita al Presidente Mao No. 39, 1989, acrilico su carta e alluminio, 24,4 x 12,7 x 12,7, Londra, Saatchi Gallery, (www.artnet.com) |
Sulla
lattina del Quaker Oats, il volto di William Penn si trasforma in Mao. Zhang
interviene con colore acrilico e sostituisce al cappello dell’uomo i raggi del
sole con cui era solito essere rappresentato il leader durante la Rivoluzione Culturale,
aggiungendo anche il cappello delle Guardie Rosse. Quella che può sembrare una
critica alla politica economica della Cina, è in realtà un semplice
accostamento iconografico casuale. Il critico Wu Hung definì l’opera come il
primo vero lavoro appartenente al movimento Political Pop, ma lo stesso autore
smentì tale lettura giustificando il lavoro come il fallimento del tentativo di
liberarsi della figura di Mao [1]. La sua
immagine era così presente nella mente dell’autore che poteva esser vista in
ogni circostanza, in qualsiasi personaggio.
Così, facendo delle piccole
variazioni, il simbolo di una delle catene più note d’America, diventa il
simbolo cinese. È difficile non notare le connessioni artistiche con i
Campbell’s di Andy Warhol ma, come sostiene Schell, l’utilizzo che Zhang fa di
Mao, e in generale l’uso che ne fanno gli artisti cinesi contemporanei, è
l’esatto opposto: Warhol trasformava icone profane in immagini sacre attraverso
la riproduzione seriale di esse, Zhang e gli artisti cinesi invece trasformano
la sacralità del leader in profano [2].
Tale
azione, ha richiesto una grande forza da parte degli artisti cinesi. L’autore
in un’intervista dichiara che ritagliare un’immagine del Presidente, o
semplicemente pensare a lui in una maniera diversa dal convenzionale, era
accompagnata da sensi di colpa, tale era la sottomissione psicologica che aveva
subito [3].
Nel 1989 la
protesta di Tiananmen lo spinge a manifestare contro il governo cinese e a
provare nuove tecniche, nuovi soggetti. Inizia qui il percorso con Mao che lo
porterà alle serie Material Mao, Fashion Mao e ad una delle sue mostre più
importanti al Bronx Museum di New York.Zhang Hongtu è un artista
che fa eccezione per diversi motivi, innanzi tutto la provenienza da una
famiglia musulmana, in secondo luogo è uno dei pochi che emigra e sceglie
consapevolmente di non voler tornare nel paese d’origine.
Sarà proprio la
lontananza da casa ad aprire la strada della consapevolezza. Vivere in Cina
durante l’epoca maoista ha significato per molti cinesi rientrare in una logica
di accettazione delle cose, accogliere senza domande fondamenti ideologici,
crescere con miti sociali. Il distaccamento da questo sistema ha provocato una
rottura non solo col proprio paese, ma con se stessi. Nell’intervista telematica
che mi ha concesso, riportata nell’appendice del presente studio, l’artista
afferma che emigrare negli Stati Uniti ha significato la rinascita, in quanto
uomo e in quanto artista. Lasciarsi alle spalle alcuni aspetti della vita
cinese ha rappresentato uno scoglio, soprattutto per quanto riguarda l’immagine
di Mao. L’artista ha spiegato più volte il proprio attaccamento all’icona del
leader attraverso l’occhio che, esposto troppo tempo ad un’immagine rossa,
quando distoglie lo sguardo continua a vedere la stessa immagine, ma nella
versione verde. Allo stesso modo, una volta arrivato a New York, sebbene non
più esposto all’immagine positiva di Mao, Zhang continuava a vedere quella
negativa [4].
Rappresentare
il Grande Timoniere diventa per l’artista un’esigenza curativa, un antidoto
contro l’ossessione di Mao, al fine di liberare la sua immagine dalla pienezza
politica e autoritaria. Gran parte dei lavori consisteranno infatti in uno
svuotamento della forma del Presidente.
我相信形象的力量,但是我不相信形象的權威
“Credo nel
potere delle immagini,
ma non
credo nella loro autorità”
Zhang Hongtu, L’ultima Cena, 1989, acrilico su tela, 152,4 x 426,7 cm, collezione privata |
L’opera
L’ultima cena è figlia di tale dichiarazione. Zhang Hongtu riproduce Cenacolo
di Leonardo da Vinci in chiave maoista.
I dodici apostoli vengono qui rappresentati come una parodia del
Comitato Centrale del Partito Comunista Cinese [5].
Il dipinto originale raffigura l’ultima cena
di Cristo, è perciò legata inderogabilmente alla sfera sacrale. L’associazione
tra religione e Partito è dunque un riferimento volutamente appesantito da una
critica al potere dell’organo supremo cinese. Oltre a sottolineare la
venerazione di un organo politico, l’artista vuole concentrare l’attenzione su
come la figura di Mao si sia sovrapposta a qualsiasi altro membro del Comitato.
I dodici apostoli, sono infatti dodici versioni del leader. Il “Mao-Cristo” al
centro della tavola rossa, davanti ai microfoni, presiede il dibattito. Gli
altri discutono delle parole pronunciate. Zhang Hongtu ci fa riflettere sul
fatto che Mao abbia costituito per molto tempo la voce principale, essendo egli
ideatore ma anche lo stesso a confutare la propria idea, l’unico a poter
realmente esprimersi in merito alle decisioni. Da tale posizione ne deriva
l’ascendente religioso.L’opera è
un ponte tra tradizione cinese e occidentale. Il dipinto è infatti arricchito
da elementi-simbolo della Cina, come le bacchette, la Grande Muraglia sullo
sfondo e lo stesso Mao.
Ma
l’elemento che più di tutti merita una riflessione è la presenza di due Mao
vestiti allo stesso modo. Quello centrale indossa la stessa divisa verde
dell’originale Giuda. Il Mao-Giuda però non tiene in mano il sacchetto di
denari come nella versione di Leonardo, bensì il Libretto Rosso. La
comprensione di tale elemento va cercata nella storia del personaggio biblico.
Giuda Iscariota, credendo che il Messia avrebbe capovolto l’ordine delle cose e
preso potere del regno di Israele, sceglie di entrare a far parte della sua
cerchia, sperando di poter fare parte un giorno dell’élite regnante dopo la
“rivoluzione”. Lo venderà poi per trenta monete d’argento. Il tradimento è
testimoniato nel dipinto dal sacchetto di denari che il personaggio tiene in
mano. Allo stesso modo nell’opera di Zhang Hongtu Giuda tiene il Libretto
Rosso, come se fosse l’elemento che più di tutti tradì l’ideologia maoista [6].
Zhang Hongtu, Material Mao Series, Wire Mesh,
1992, acciaio, 91,4 x 69,8 x 21,5 cm,
collezione privata , (www.momao.com)
|
Mao è stato
tradito dallo stesso Mao, dalla sua ideologia.La
religione è un elemento importante, testimone della venerazione del leader
cinese. Rimarrà una costante, sebbene non palesata iconograficamente come in
questo caso, di moltissimi altri lavori dell’artista. Nella serie Material Mao
(Wuzhi Mao xilie, 物质毛系) infatti, la tematica religiosa fa da
sfondo ai ritagli dell’immagine del leader. I lavori iniziarono nel 1987 e
terminarono nel 1995, quando l’artista passò alla pittura di paesaggi shanshui 山水 (montagne
e fiumi).
La
serie Material Mao come vediamo è composta da ritagli del contorno di Mao in
diversi materiali. L’assenza dell’immagine è strettamente legata all’aspetto
spirituale. Innanzitutto Zhang Hongtu proviene da una famiglia musulmana. Nella
tradizione islamica la rappresentazione di dio e delle icone in generale è
assolutamente vietata, eppure durante la Rivoluzione Culturale ogni famiglia
musulmana cinese possedeva immagini del leader in casa. Da questo punto di
vista l’artista coinvolge la propria esperienza, sia familiare che politica,
per esprimere la contraddizione tra fede e politica. Mao, come Marx, sosteneva
che la “religione è l’oppio dei popoli”. Durante la Rivoluzione infatti ogni
oggetto o testo religioso fu distrutto. Usando le parole dell’artista, Mao creò
un vuoto di fede, ma allo stesso tempo si servì della propaganda per rendere se
stesso un’icona religiosa [7].
Il
concetto di vuoto e vacuità è inoltre un elemento fondamentale del Buddhismo,
pur non essendo l’artista legato personalmente a tale religione. Se non è
corretto affermare la totale assenza delle cose, è allo stesso modo errato
accettare la realizzazione della totalità dei fenomeni, pertanto la filosofia
buddhista individua il “giusto mezzo” nel concetto di vacuità. Le
opere di Zhang Hongtu dunque, non sono affatto vuote, ma una via di mezzo tra
presenza e assenza. L’immagine di Mao infatti è assente in quanto non si
manifesta concretamente, ma nello stesso tempo è presente in quanto il
materiale che circonda il ritaglio possiede la forma del volto del leader. Come
mostra il testo riportato in fondo, un ulteriore coinvolgimento filosofico va
ricercato nella dottrina taoista [8]. Il Tao, che
esiste in tutte le cose e viceversa, garantisce l’equilibrio cosmico. Il
concetto di wuwei 无为 si basa sulla consapevolezza da parte
dell’uomo di non essere sorgente di tutte le cose, in quanto lo è il Tao
solamente. L’equilibrio si mantiene non attraverso l’azione, ma con la non
azione. Paradossalmente però il rimanere fermi è esso stesso movimento, quindi
il senso profondo di tale principio è l’agire senza agire. La complementarità
tra la figura ritagliata di Mao e il materiale che la racchiude richiama lo Yin
e lo Yang, forze opposte ma sempre in equilibrio. Così ogni opera rispetta la
naturale convivenza tra pieno e vuoto, Mao e Non-Mao. La sua assenza d’altronde
esiste solo in relazione alla sua presenza materiale. Il nome Material Mao
nasce proprio dal contrasto con l’immaterialità del leader. Lo spazio vuoto è
infatti privo di materia, ma determina la forma della materia che gli sta
intorno.
L’artista
scelse di lasciare la Cina ma in realtà fa ampio uso di aspetti appartenenti
alla cultura d’origine. Material Mao fonde elementi del background culturale in
cui l’artista è cresciuto, mescolando religioni e materiali molto vari.
Relativamente
a questi, oltre al riso e al mais, tipicamente cinesi, Zhang utilizza acciaio,
corda, cemento, legno, iuta. Il senso di tale varietà è questa volta legato non
solo ad un aspetto filosofico ma anche politico. La grande venerazione di Mao
lo ha reso onnipresente, da qui la scelta di rappresentarlo su mezzi diversi.
Politicamente ha svoto un ruolo fondamentale in tutti gli ambiti, la sua voce
ha attraversato migliaia di chilometri, giungendo in ogni parte della Cina e
oltreoceano. L’artista sceglie di testimoniare questo fenomeno attraverso i
materiali, come se il leader fosse dotato del potere di permeare qualsiasi cosa,
di insediarsi ovunque.
Mao è morto
da diversi anni ormai, ma continua ad essere presente, con la sua assenza. Ha
lasciato un buco, la sua orma, intorno alla quale continua a crescere l’erba, o
il mais. Ed è proprio la sua assenza, a determinare la forma di ciò che ha
intorno. Le opere si presentano come un’aspra critica nei confronti del governo
cinese, incapace ancora di abbandonare il Maozedongpensiero. Così la Cina non
ha mai perso coscienza del Presidente, che continua ad essere parte della nazione.
Un problema, questo, che Zhang Hongtu riconosce come responsabile della mancata
democratizzazione del paese. La Cina è andata avanti rimanendo ferma,
realizzando così il concetto di non movimento taoista.
Solo criticando Mao il
dittatore, avanzerà verso il futuro. |
[1] THUY, Linh N. Tu, The Beautiful Generation: Asian Americans
and the Cultural Economy of Fashion, Duke University Press, Durham, 2011,
p. 148
[2] SCHELL, Orville, Mandate of Heaven: The Legacy of Tiananmen
Square and the Next Generation of China’s Leaders, Touchstone, New York,
1995, p. 291
[3] RONG, Xiaoqing, 荣筱箐, Yueliang beimian de ren: Liu zai niuyue de huaren yishujia, 月亮背面的人:留在纽约的华人艺术家,
2015, http://cn.tmagazine.com/people/20131107/tc07artists/, 07/11/2013
[4] HE, Peiru, 何佩如, Hong kuang yishujia, 轟狂藝術家, FHM (Taiwan) zazhi, FHM(台灣)雜誌 (2006). Disponibile online in www.momao.com
[5] SCHELL, Orville, Mandate of Heaven: The Legacy of Tiananmen
Square and the Next Generation of China’s Leaders, cit., p. 190
[6] HAY, John, Boundaries in China, Reaktion Books Ltd, London, 1994, p. 296
[7] Tratto da un’intervista rilasciata al
Guggenheim Museum, inviatami dall’artista.
“Mao created a huge vacuum of belief, and at
the same time, he used his power and all the propaganda tools including
literature, art, music...to make himself a new religious icon”.
[8] Estratto da: CAO, Zhangqing, 曹长青, Mao Zedong de heidong-lü mei huajia
Zhang Hongtu de Mao xiang xinzuo, 毛泽东的黑洞 旅美画家张宏图的毛像新作, Hun shi mo wang, Mao Zedong, 混世魔王,毛泽东
(s.d.), p. 110. Il testo
è disponibile nell’appendice del presente lavoro
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